Cibo ed Eros

LA LIBIDO NEI CIBI

Cibo erotico! La caponata di melenzane servita tiepida è il preludio migliore a esotiche e travolgenti esperienze erotiche; l’insalata di arance condita con carote a rondelle e sottili fette di bottarga di tonno va gustata insieme alle confidenze di un’amica molto particolare. Poche sono le certezze di Anciluzza da quando suo marito Gaetano, che non avrebbe mai potuto lasciarla perchè lei “ci piangeva troppo”, l’ha abbandonata.
Tra queste certezze però c’è il potere che la sua cucina ha sugli uomini. Uscito per la prima volta nel 2007 da Iride (Gruppo Rubbettino) e di nuovo in libreria dal 24 marzo scorso grazie alla riproposta di Rubbettino che presenta ad un pubblico più vasto il romanzo d’esordio dell’autrice de Il conto delle minne(Mondatori, 2009),L’assaggiatrice di Giuseppina Torregrossa, tra ricette ed odori, è anche una storia di emancipazione femminile che passa proprio attraverso l’arte culinaria: per mezzo di piatti sapientemente preparati si legano invisibili fili con uomini che sono anche potenziali amanti e si scopre la propria libera capacità di darsi. E curiosamente quest’emancipazione passa per un’attività alla quale tradizionalmente molte donne, all’interno della famiglia, sono invece “relegate” perchè nutrici e fattrici.Anciluzza, spinta dalla sorella Fifidda e pressata dalla necessità di pagare il mutuo della casa dopo l’abbandono da parte del marito, apre una “putìa” di prodotti tipici siciliani in un piccolo locale sul mare di Tummìna, a Strafalcello. Da casalinga di mezza età, laureata ed insoddisfatta, Anciuluzza si scopre così imprenditrice: prepara manicaretti per paesani e turisti e grazie alla cucina ama e si concede senza riserve. Ad Hamed, misterioso e passionale, ad Adele che faceva l’estetista in Germania e conosce tutti i segreti del piacere fisico, a Cicciu lu Sceccu, infantile e animalesco negli approcci come nell’amore. Chi passa dalla “putìa” mangia, ama e racconta qualcosa di sé con uno stile così ricercato che, in contrasto con la lingua nell’io narrante misuratamente imbevuta di dialetto, le vite stesse degli avventori restano avvolte da un’atmosfera quasi onirica.
Odori e sapori (che è anche il nome del locale aperto da Anciluzza) danno alle pagine del romanzo una mollezza postprandiale. Giorni e tramonti si susseguono mentre Ancilluzza prepara cassatele di ricotta e scorzette di agrumi candite ma le esperienze che lei matura nella controra concedendosi al desiderio e guardando Popò l’ausiliario del traffico, Rosolino il posteggiatore, l’affascinante Romana intrusciata in un vestito azzurro la cambieranno. La donna che in questo originale percorso di formazione teme ancora il giudizio moralista dei compaesani è infatti maturata fino al punto da restare così insensibile di fronte al ritorno del marito, nauseata dal ricordo del suo sesso rapace, violento ed egoista, da farlo andar via di nuovo per poter continuare a vivere la sua “vita viva”.
Non siamo certo di fronte ad una realtà fortemente maschilista come quella messicana rappresentata da Laura Esquivel in Dolce come il cioccolato – da cui è nel’92 Alfonso Arau, marito della Esquivel, trasse il film Come l’acqua per il cioccolato – ma la protagonista della Torregrossa ha qualcosa che la imparenta con Tita, ineffabile cuoca di quel romanzo, capace di trasferire nei cibi le proprie emozioni, provocando in chi li mangia gioie ma anche dolori così intensi da giungere al pianto.
E’ forse il sensuale calore dei paesi del Sud a creare strani ed inediti legami tra cibo ed eros. Infatti, come la Torregrossa fa precedere ogni capitolo da una ricetta della tradizione isolana, così la brasiliana Dona Flor e i suoi due mariti, si presenta subito, in esergo, con una serie di preziosi consigli per una perfetta veglia funebre tra i quali, va da sè, inserisce un elenco di cibi che non devono assolutamente mancare: il caffè da servire con latte, pane imburrato, formaggio e biscotti per sostenere quanti vanno a visitare la salma; la cioccolata bollente da alternare a vassoi con panini al formaggio o ai salumi; oppure, volendo proprio fare una “veglia di lusso”, Dona Flor prescrive il brodo di gallina, le polpettine di baccalà, il fritto misto, le crocchette, i dolci e la frutta secca. Selvaggia, affascinante e naturalmente provetta cuoca è anche Gabriella – protagonista dell’altro romanzo di Amado, Gabriella garofano e cannella. Sinuosa quando balla scalza facendo impazzire gli avventori del bar Vesuvio dell’arabo Nacib Saad e irresistibile quando si muove tra i fornelli, la mulatta. Gabriella è un’altra figura di questa ideale galleria di eroine in sedicesimo che hanno fatto della cucina un’arma portentosa di seduzione ma anche di libertà.
Si tratta in tutti i casi di donne che accolgono corpi e li nutrono attingendo con leggerezza a ciò che hanno di più prezioso, la capacità di donare la vita. E così che il cibo si fa veicolo per più intime comunicazioni: Anciluzza lo impasta, lo cuoce, lo condisce e lo serve. Con le mani lo prende dal piatto e lo lascia gustare ad i suoi amanti. “Mi imbocchi come a un picciriddo” è la richiesta di Cicciu lu Sceccu, mentre altrove è Anciluzza stessa che, come farebbe mamma uccello con la sua nidiata, assapora appena un pezzetto di pignoccata e, in un bacio, lo passa nella bocca di Hamed.
Una donna dunque che sfama corpi e alimenta desideri. Sesso e cibo riscrivono così un’ideale geografica del desiderio in cui qualsiasi donna sappia cucinare per un uomo, siciliana o sudamericana che sia, ha su di lui un potere sottile eppure in grado di affrancarla.

Emanuela E. Abbadessa La Repubblica 11/04/2010

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