Presi per il naso

Nico Orengo e il suo Di viole e liquirizia. Che cosa ha caratterizzato il mondo dei sapori, del buono, dell’enogastronomia nel 2006? Qual è la sfida, in cucina, al mercato, quando si fa la spesa, quando si decide come nutrirsi, come mangiare bene nel 2007? Mi è stato chiesto di seguire questa traccia per il primo numero dell’anno del Corriere dei Ciechi.
Così da cronista del gusto mi sono chiesto cosa aveva caratterizzato l’anno appena concluso: ho messo in fila appunti di ogni tipo, dai polli con l’aviaria, al vino coi trucioli, fino al quell’apoteosi del buono che è stato il Salone del Gusto di Slow Food a Torino.
Poi ho chiuso gli occhi ed è rimasto un libro letto all’inizio dell’anno: “Di viole e liquirizia”, di Nico Orengo, uscito per Einaudi. Una storia densa e garbata che attraverso la passione per il vino, racconta di altro.

TEMI AFFRONTATI

Del romanzo ricordo un’immagine assolutamente olfattiva; il protagonista che raccoglie la terra e l’annusa per comprendere il vino che da questa terra nasce. Mi scuserà il lettore se racconto qualcosa, di poco, di me, ma l’immagine, dal libro è andata verso il giorno in cui mi sono avvicinato per prima volta al desiderio di scrivere di vino e di cibo: rapito da un vino “cattivo”, nero, denso, vischioso, forte, da immaginare acido, imbevibile forse, ma forte, vivo, focoso di Sicilia, compagno di salsicce dal sapore evocativo.
L’immaginario si è fissato su quel bicchiere e lo ha reso buono al punto da trasformarlo in oggetto del desiderio. Ho viaggiato in Sicilia alla ricerca di quel vino nero, povero e contadino.
Ho deciso di scrivere di vini e di cibi, nella vita, inseguendo quel sogno che era il racconto di una terra. Un’inchiesta in punta di forchetta, realizzata da Giuseppe fava, fondatore e direttore del giornale “I Siciliani”, ucciso dalla mafia per quello che scriveva, per il coraggio delle parole. Ho amato il vino denso delle terre bruciate dal sole e le salsicce forti di montagne. Non perché fossero delizie da proporre al mercato (quello globale intendo, non quello bello delle bancarelle…), ma sorsi e bocconi di storia materiale, di vita quotidiana da raccontare, da offrire al viaggiatore, al bevitore. Stanno nella terra e negli occhi di chi la racconta e nelle mani di chi lavora (senza retorica contadina, ma con la fatica quotidiana) il piacere dell’incontro con certi vini talmente carichi di “difetti” da divenire indimenticabili. Unici al mondo.
C’è l’asprezza della Val Susa, gli occhi verdi delle donne, i capelli rossi, le lentiggini sulla pelle diafana, la povertà della montagna in una bottiglia di Avanà che è la varietà di uva tipica di quel territorio. Giudicarla con i parametri dei vini da salotto è miope, perché uccide la diversità, del vino e delle genti che vivono nelle terre dove quei vitigni sono nati. Pensare imbevibile il nero di Beppe Fava significa dimenticare l’asprezza della vita, la potenza della vite. Di tutta l’Italia gastronomica ricordo gli odori che non possono essere patinati come certi ristoranti e certe fotografie. Dimenticare i profumi del cibo e del vino rende entrambi merci da supermercato.
Per dirla come Rousseau è l’olfatto il senso del ricordo e del desiderio. Non è forse così anche per i libri? Quelli dell’infanzia associano i titoli all’odore di biblioteca, ma anche a quello di minestrone nella cucina affollata, dove stavano i volumi illustrati di Giulio Verne in attesa di essere divorati più in fretta delle pietanze quotidiane.
La carta, l’inchiostro, hanno odori che accompagnano la nostra vita. Certo, sono infinitamente meno importanti di quelli dei vini e dei cibi, dei campi, del mare, dei fiumi, ma sono lo scrigno più profondo dei nostri ricordi. Sono discorsi vecchi e forse per questo dimenticati: ma la porta del “buono” è nei sensi dei quali l’olfatto è il più bistrattato e la vista, invece, è quella più sollecitata.
L’occhio si fa ingannare ben più del naso. Non a caso le masse si manipolano con la televisione e non con i profumi che escono dalle pasticcerie. Ogni anno tengono banco nei salotti le guide gastronomiche ed enologiche che parlano sempre più lo stesso linguaggio dei menù di certi ristoranti: pensate a certi piatti che si chiamano: “terrina di polpa di granchio brasata su letto di dragoncello caramellato al ginepro con aceto tardivo di prugna selvaggia”.
Un’accozzaglia di parole che allontanano dalla sostanza. I critici, quelli delle guide, giudicano la creatività, il mestiere e non la materia prima. Il “grande” cuoco è colui che crea il piatto, non chi fa della strada, magari a piedi o in bicicletta, per andare di persona a far la spesa, ad acquistare farine, verdure, oli, formaggi, pesce che raccontano il “fare” di un territorio. Il grande vino è quello che porta la firma dell’enologo famoso, non quello che racconta l’uva, la terra e la passione di chi lo produce, di chi coltiva la vigna.
I ristoranti di grido si assomigliano, ovunque, esattamente come i vini importanti e premiati. Buoni, buonissimi, ma facilmente intercambiabili, privi di storia. Scrivo “storia” e non “identità”, per non cadere nel rischio opposto: la difesa delle radici in quanto tali. La storia, il divenire, implica la mescolanza, lo scambio, il meticciato, che in tavola e in vigna valgono quanto nella vita.
Una critica gastronomica ed enologica che si schiera dalla parte delle persone, dei lettori nel caso di guide e giornali, non può fare delle scelte di campo, in questo caso proprio di campo intenso come terreno. I prodotti buoni nascono dalla terra e da un rapporto corretto con la terra, di scambio: amore, salvaguardia, in cambio di profumi e sapori. Scegliere che il valore è nella terra, significa anche decidere quali sono i luoghi del commercio, quelli dove c’è scambio, di idee, oltre che i prodotti, tra chi produce e chi acquista.
Contenuti, sostanza, storia, scelte di coltivazione, scelte di vita anche (oggi si rimane o si torna alla campagna, alla montagna, per scelta, per fortuna, non per antica servitù) che si traducono in sapori, profumi, qualità dell’esistenza. Questo sarebbe bello trovare nelle pagine dei libri di cucina e delle guide al mangiar bene, non la “pornografia” del piatto impossibile che è solo la rappresentazione del buono, moltiplicabile a random, all’infinito.
Nelle librerie gli scaffali di volumi sul cibo ingrassano fino ad implodere di cose che sono la ripetizione infinita e, a volte volgare, di se stesse. Nessun profumo, ma l’odore stantio del “come eravamo” di una tradizione inventata ad uso e consumo del mercato, anzi dei mercatini, sfruttando una cultura materiale immensa e popolare, ma riducendola ad icona, a ricordo. Fidiamoci del naso, amici miei, solo di quello.

1 gennaio 2007 Il Corriere dei ciechi
MIchele Marziani

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