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Sicilia: gastronomia e cultura

Gastronomia e cultura. Così scrive Ignazio Butitta: “Uno dei caratteri della vita intellettuale e in generale della cultura siciliana su cui non si è abbastanza riflettuto è la eterogeneità” L’eterogeneità attraversa la società siciliana, ma anche la sua natura fisica, rendendola una terra dai forti contrasti: montagne innevate e campagne arse dal sole, colline ricamate dai vigneti e distese di grano; semplicità contadina e ridondanza barocca della nobiltà, ricchi e poveri, principi e plebe. La terra dei contrasti plasma ogni tratto della cultura siciliana, restituendo in un’apparente contemporaneità le stratificazioni dei popoli e del tempo che l’hanno generata.
La gastronomia ripercorre il dualismo siciliano, specchio fedele della vita materiale e spirituale di questo popolo: cucina nobile e popolare, frutti della terra e del mare, povertà degli ingredienti sulla mensa del bracciante e ricchezza che deve poter stupire l’ospite del potente.
La varietà delle preparazioni è figlia della diversità dei suoi prodotti: degli orti, degli allevamenti, del ricco mare. Anche la cucina più povera non è mai sciatta, e si arricchisce di aromi, lunghe e faticose preparazioni, trasformando pochi poveri ingredienti in opere gastronomiche. In Sicilia la tradizione prevale sempre, tanto che visitando le sue città e i suoi villaggi scopriamo sapori antichi e diversi, come diversi sono stati i suoi abitanti, coloni, dominatori, come se il tempo e la modernità non siano scorsi sulla sua superficie, come la pioggia sul vetro di una finestra.
Per pochi altri posti al mondo come per la Sicilia parlare di cucina è iniziare un viaggio dentro il tempo, incontrando piatti che dischiudono prospettive di epoche remote e suggeriscono immagini di luoghi e di paesaggi del passato.
Una cultura gastronomica iscritta nella tradizione mediterranea, in cui la varietà di piatti è ricca di prodotti, spezie e profumi che testimoniano quanto l’isola si sia, da secoli, trovata al centro di mire e attenzioni di popoli di ogni dove. Le tante dominazioni hanno lasciato monumenti e ruderi a ricordo del loro passato splendore, hanno profondamente segnato il paesaggio con le colture introdotte e seminato tracce in abitudini e modi di vita facilmente riscontrabili ancora ai giorni nostri soprattutto in cucina. Storia e antropologia sono le chiavi di lettura per addentrarsi nel labirinto dell’enogastronomia siciliana.

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I Greci provenienti dalle Cicladi nel 735 a.C. sbarcarono sul litorale ionico, in prossimità dell’odierna Naxos, ed i Corinzi di Archia nel 734 a.C. furono a Siracusa. La nascita della gastronomia siciliana risale a circa 2500 anni fa, quando nel mondo classico i cuochi della Sicilia e della Magna Grecia erano tenuti in grande considerazione per la genialità delle loro preparazioni culinarie. Le prime testimonianze significative risalgono al IV sec. con Platone che, chiamato dal tiranno Dionigi il Vecchio, criticava gli eccessi dei Siracusani a tavola, pur elogiandone al contempo la ricca pasticceria, e con Licurgo, che indusse le istituzioni spartane ad emanare un decreto per cacciare il cuoco Mirteo di Sicilia, accusato di “… illanguidire i severi costumi della città con le sue prelibatezze …”. Già il poeta Archestrato di Gela, nel IV sec, si era occupato di cucina nel poema in esametri “Hedypatheia”, Gastrologia. Questo, andato distrutto durante l’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto, fu reso celebre da Ateneo, sofista di Naucrati (Egitto) vissuto nel III sec., autore di un’opera in quindici libri, intitolata “Deipnosofisti”, ovvero “Banchetto dei sofisti”. Tuttavia, già prima di Ateneo, anche lo storico romano Ennio aveva studiato l’opera di Archestrato, scrivendo un altro poema in esametri, “Edyphagetica”, La buona cucina. Tra le altre testimonianze sono da annoverare l’opera di Miteco di Siracusa, precursore della letteratura gastronomica con “Il cuoco siciliano”, sempre del IV sec., e di Labduco, che aprì per primo una scuola per cuochi. Il farro, prima dei Greci, veniva utilizzato in Sicilia, per fare il pane, poi, venne utilizzato in tutt’altro modo. Con la farina di farro, oltre a un ottimo pane, si ottennero delle tagliatelle molto saporite e, niente poco di meno che, la pasta frolla. Con il farro macinato grosso essi si fecero delle ottime zuppe ed, infine, con il seme intero, unito a fave, lenticchie, ceci, ed interiora, la famosa Fabata Puls. Della Magna Grecia restano intatti i sapori delle olive, della ricotta salata, del miele dei fiori, del pesce, dell’omerico agnello alla brace e soprattutto del vino.
Con il declino della potenza di Bisanzio, sempre più occupata a difendere i confini orientali dai Turchi e dai Magiari, iniziò la colonizzazione musulmana del territorio siciliano. Il primato di Siracusa venne soppiantato da Palermo, che diventò il centro della vita politica e commerciale. La Sicilia vide nascere monumenti e opere pubbliche, e anche il commercio marittimo conobbe un forte sviluppo. Alla già ricca cucina siciliana si aggiunsero i prodotti importati dalla Persia, il riso, le spezie, lo zucchero di canna e gli agrumi, ma, anche, il riso che avrà un posto importante nella cucina siciliana. La pasticceria si evolve e nasce la celebre cassata e la “cubbaita”, un dolcissimo torrone di miele, semi di sesamo e mandorle. In una splendida collaborazione gastronomica tra arabi e siciliani, nasce una sorta di cucina arabo-sicula la cui influenza si estende a tutto il bacino occidentale del Mediterraneo. Tra i vari piatti, ancor oggi in uso, non è possibile non citare il “cuscusu” elaborazione del famoso cuscus arabo o il sorbetto preparato quasi come oggi e, quindi, molto più raffinato rispetto all’uso di bevande ghiacciate già in uso in tutta Europa.
Nel corso del periodo di dominazione romana Marziale, Petronio e lo stesso Cicerone parlarono delle prelibatezze locali. Diventata la prima provincia dell’Impero nel III secolo d.C., la Sicilia fu definita il “granaio di Roma”; furono edificate le prime fastose ville, prima fra tutte la Villa del Casale di Piazza Armerina, con i suoi eccezionali mosaici, sorta tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C. Ma è in questo periodo che l’isola iniziò a subire i primi soprusi, essendo considerata dai Romani una colonia da spogliare, e ad avviarsi verso quel periodo di decadenza al quale solo gli Arabi porranno rimedio. Al periodo romano risalgono piatti come le seppie ripiene, le cipolle al forno, il «maccu», purea di fave cotte in acqua insaporita con erbe aromatiche, che si condisce con olio crudo e si mangia con pane o pasta. È un piatto semplice, che oggi si trova quasi soltanto nell’interno dell’isola: per secoli è stato il cibo più frequente del contadino e dello zolfataro, che se lo portavano, dentro la “quartara” o anfora di terracotta, nei campi e in miniera.
Con la disgregazione dell’Impero iniziarono le invasioni barbariche, come quella dei Vandali che, dopo aver occupato l’isola, la abbandonarono nel 455, a seguito di una lunga serie di devastazioni e razzie. Alcuni decenni dopo i Goti, alla fine del V secolo e con l’avallo dell’imperatore Giustiniano, si insediarono in Sicilia, governandola fino a quando furono costretti a cederla nel 535 ai Bizantini, che rimasero fino all’827. Con la loro presenza l’isola riscoprì gli antichi piaceri della cucina greco-romana, incorporata ormai alle tradizioni locali: si trattava di una cucina sofisticata e ricca di sapori, a base di soffritti e piatti dolcificati con il miele.
Nel trentennio che va dal 1060 al 1091 i Normanni, capeggiati da Roberto il Guiscardo e dal fratello Ruggero d’ Altavilla, già possessori di terreni in Puglia, rivolsero la loro attenzione alla Sicilia, assoggettandola dopo una guerra lunga e cruenta e gettando le basi del nuovo Stato siciliano. I segreti della gastronomia furono gelosamente custoditi in castelli e conventi dove, malgrado il mantenimento di molti aspetti introdotti dalla dominazione araba, i gusti vennero rielaborati in base alle esigenze dei nuovi signori provenienti dalla Francia. Morto nel 1112 Tancredi, ultimo re normanno, subentrò con Enrico VI la dominazione della dinastia Sveva degli Hohenstaufen; il figlio Federico II, imperatore, ricevette l’appellativo di “stupor mundi” e continuò a rendere Palermo la città culturalmente più evoluta del mondo occidentale. Appassionato di caccia, compose un trattato di falconeria importante ancora oggi, “De arte venandi cum avibus”. Di questo sovrano è tramandata la fama di epicureo, tanto che Dante lo collocò nel cerchio dei golosi. Popolazione scandinava di indole marinara e guerriera, che, oltre alla costruzione di enormi cattedrali, porta spiedi rotanti, aringhe affumicate, merluzzi secchi (Piscistaccu e Baccalà) . Si sviluppa nelle cucine siciliane una grande conoscenza delle tecniche per la miglior cottura della selvaggina che completava così il repertorio, già vastissimo, delle preparazioni gastronomiche siciliane.
Si giunge così al lungo periodo della dominazione spagnola in Sicilia; l’epoca dei Viceré. Al seguito dei Conquistadores spagnoli di ritorno dall’America, si diffuse in Europa il pomodoro che, nel Sud d’Italia e quindi anche in Sicilia, ebbe enorme fortuna trovando terreno ideale. Pochi anni dopo fu la volta di un’altra protagonista della cucina meridionale, la melanzana, anch’essa di origine sudamericana. Si crearono con questi ortaggi piatti come la «caponata» di verdure, tuttora uno dei più caratteristici e diffusi dell’isola. In questo stesso periodo nacque il Pan di Spagna, base di molti dolci, e si diffuse il cioccolato a seguito dell’importazione dei semi di cacao.
Il capitolo più celebre della cucina siciliana è quello baronale. Nelle sontuose dimore dei gattopardi dei secoli XVIII e XIX la tavola raggiunse opulenza e fasto straordinari. Il popolo non aveva di che sfamarsi, ma i baroni e gli alti prelati si contendevano i più abili “monzù”, cioè i maestri della cucina (dal francese “monsieur”) che prendevano al loro servizio per avere sempre una tavola ricca di invenzioni spettacolari. È rimasta celebre la descrizione che fece l’inglese Patrick Brydone di un pranzo offerto nel giugno del 1770 dalla nobiltà di Agrigento al proprio vescovo. «A tavola eravamo esattamente in trenta, ma sulla mia parola non credo che i piatti siano stati meno di un centinaio. Erano tutti guarniti con le salse più succulente e delicate… Non mancava nulla di ciò che può stimolare e stuzzicare il palato…». Tra le portate, quelle che più colpirono il viaggiatore inglese furono le murene e il fegato di polli fatto ingrossare a dismisura. A un certo punto del banchetto ci fu un interessante scambio eno-gastronomico perché gli invitati britannici furono pregati di preparare un ponce, bevanda di cui in Sicilia si era sentito parlare ma che non si era ancora assaggiata. L’accoglienza fu entusiasta, ma l’incredibile pranzo aveva in serbo altre sorprese. Al momento dei dessert, continua il cronista anglosassone, «uno dei camerieri offrì al capitano il simulacro di una bella pesca e questi, impreparato a qualsiasi inganno, non dubitò affatto che si trattasse di un frutto vero. Tagliatala in due, se ne cacciò subito in bocca una grossa metà… ma tosto il freddo violento ebbe la meglio ed egli cominciò a rotolare la pesca da una parte all’altra della bocca, con gli occhi che gli lacrimavano; finché, non potendone più, la sputò nel piatto imprecando: “Una palla di neve dipinta, perdio!”». La gustosa descrizione di Brydone offre la testimonianza storica di un’arte – quella dolciaria, in particolare quella dei gelati – che non è andata perduta.

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Non è possibile parlare di cucina siciliana come di un’unica entità: le diversità originate dalle differenti influenze culturali si sono incrociate con quelle determinate dalla diversità tra cucina della costa e dell’interno; due mondi ancora lontani, ma tra i quali, a causa delle difficoltà di spostamento, esisteva un tempo un solco profondo. Passando da un centro abitato dei Nebrodi a un borgo marinaro del Siracusano si incontreranno piatti diversissimi, come diverse sono le preparazioni in paesi distanti tra loro poche decine di chilometri.
Come in tutte le cucine povere è ad esempio ricorrente l’abitudine del piatto unico; le paste di vario tipo e cucinate in modi diversi, arricchite dai prodotti del posto finiscono col diventare l’intero pasto. È il caso della pasta con le sarde, piatto che da Palermo si è diffuso ovunque sull’isola; delle paste con ortaggi e legumi dell’interno; delle varie paste al forno quali la pasta ‘ncaciata messinese, per giungere alle varianti ricche di echi culturali come la catanese pasta alla Norma (con pomodoro, melanzane e ricotta salata).
Prima ancora della pasta è però il pane ad assolvere questa funzione nutritiva. I tanti tipi di pane di cui la Sicilia è ricca si sono sempre accompagnati a quanto la zona offriva, olio, origano e pomodoro per il più diffuso pane cunsato (condito), da consumarsi caldo, appena sfornato al più insolito pane cà meusa crostino con la milza venduto sulle bancarelle per le strade di Palermo.
La familiarità con i prodotti naturali ed una semplicità di fondo è ciò che ancor oggi più caratterizza la cucina della parte orientale dell’isola, culla della Magna Grecia. È facile riscontrare analogie con la cucina dell’interno segnata da abitudini contadine e caratterizzata dall’utilizzo di verdure ed ortaggi. La melanzana ne è un esempio significativo, da essa traggono origine piatti appetitosi fino a giungere alla sua glorificazione nella parmigiana.
I prodotti della pastorizia hanno un posto di rilievo, mentre il consumo della carne è un’eccezione spesso riservata alla festa. La preparazione più comune è alla brace, vengono utilizzati soprattutto il maiale, ma ancor più l’appetitoso castrato. Nella parte occidentale segnata dall’influsso arabo e dalle tradizioni di corte, la cucina si fa più ricca, ricercata e dai contrasti insoliti. In analogia al paesaggio, all’austera semplicità dei templi greci si sostituiscono le raffinatezze da “mille e una notte” della Palermo araba e la sovrabbondanza dell’architettura degli edifici barocchi. La caponata di melanzane è un esempio di come diversamente vengano elaborate le verdure, il falsomagro (grosso rotolo di carne con ripieno di prosciutto, formaggio e uova) o gli involtini alla palermitana (ripieni di pangrattato, uva passa, pinoli, formaggio e aromatizzati con alloro e cipolla), lo sono per le carni, le sarde a beccafico (con pangrattato, limone, pinoli) per i pesci. Piatti la cui complessità aveva anzitutto la funzione di ostentare ricchezza. Non manca tuttavia anche nelle grandi città una cucina d’ispirazione popolare, cucine di strada come friggitorie, forni e bancarelle che offrono ogni sorta di piatti a tutte le ore (sfinciuni e panelle per esempio).
Il pesce, come ovvio, è proposto con ricchezza di preparazioni e di varietà; tra di esse anche per il posto che da sempre occupa nella tradizione popolare merita rilievo il tonno, ma ovunque vengono proposte sarde e alici, mentre lo spada è più tradizione del messinese. Particolari le preparazioni alla ghiotta (cipolle, olive, capperi e pomodoro) e nel trapanese il cuscusu, versione isolana del cuscus di origine magrebino realizzato appunto con pesce.
Attenzione particolare merita la pasticceria che in Sicilia fa parte delle abitudini quotidiane, il suo profumo è nell’aria come quello delle piante odorose (rosmarino, finocchietto selvatico, origano, nepitella) che si incontrano lungo il viaggio. I dolci, ideati nei conventi – basti pensare alla variopinta frutta martorana, che prende il nome dall’omonimo monastero palermitano – hanno caratterizzato l’isola al di fuori dei suoi confini: cannoli, cassate, pignoccata, biancomangiare o il tradizionale gelo di “melone” (gelatina di anguria) sono i più diffusi, ma ogni provincia è ricca di novità e sorprese. Non si possono poi ricordare i gelati e le granite, prodotti squisiti dell’abilità artigiana, ma prima ancora abitudini, riti che parlano di altre dimensioni del tempo. È considerato un obbligo, nelle giornate estive, offrire all’ospite una granita di caffè, di limone o di mandorle, di gelsomino.
I vini dell’isola, sotto la spinta dei produttori e delle cantine più attenti alle esigenze del mercato, hanno raggiunto alte vette qualitative, migliorando le tecniche di coltivazione e di lavorazione, introducendo nuove varietà, tanto da conquistare anche mercati lontani, dove si sono fatti apprezzare riscattando l’originale immagine che li faceva considerare solo vini da taglio. Ora vincono premi internazionali e sono presenti nei più prestigiosi ristoranti ed enoteche de mondo.

Agrigento e i suoi vini nel libro di Roberto Spera

Roberto Spera. Presentato ad Agrigento “I vini dell’Agrigentino. Vigneti e luoghi incantati della Valle dei Templi”, il libro di Roberto Spera, edito da Vini in viaggio con il contributo del Consiglio interprofessionale dei vini Doc e Igt della provincia di Agrigento.
La Valle dei Templi guardata da un profilo inedito, quello della produzione del vino. Un racconto che descrive uno dei luoghi più suggestivi del mondo attraverso le visite in cantina, i vigneti, i filari, la natura.
“Un territorio di rara bellezza dove i colori sembrano esprimersi in modo assoluto quasi che il sole ne esalti tutte le loro potenzialità cromatiche – scrive nella sua introduzione Spera -. E i profumi… si rimane inebriati dai profumi di questa terra che accarezzano il nostro olfatto portati dal vento che corre dal mare o scivola giù dai colli e dai monti. Sogno l’immagine delle antiche zolle che hanno per secoli donato i frutti dell’agricoltura a questo popolo fiero e paziente, quando il vino che nasceva dai radi filari dissetava le famiglie contadine. Un antico messaggio non interpretato per così tanto tempo ha ora trovato luce grazie all’intuizione, alla passione, alla fatica di un intero popolo di questa parte della Sicilia. I loro vini oggi sanno raccontare questa storia”.
Nel volume, la cui presentazione è firmata da Fabrizio Carrera, giornalista-gourmet e direttore del settimanale on line di enogastronomia cronachedigusto.it, la provincia viene raccontata attraverso i suoi quattro territori: mare, mare, pianura, collina.
Ma c’è anche altro, con la sezione “Itinerando con gusto”, che descrive alcuni prodotti tipici della gastronomia del territorio e racchiude gli appunti di viaggio dell’autore con utili consigli sui ristoranti frequentati.
Roberto Spera collabora con numerose testate per gli aspetti enogastronomici, tra le quali “PiùCucina” e “la Repubblica”. Fa parte della redazione del web magazine Athenews, Ateneo dei sapori. È responsabile editoriale del web magazine Cucinaecantina ed è presidente di una Associazione che ha come obiettivo la diffusione della cultura del cibo e del vino di qualità. In questa stessa collana ha già pubblicato Il Sagrantino di Montefalco, Montepulciano d’Abruzzo e I vini dei Castelli Romani.

FONTE: www.bereilvino.it

A TUTTO TONNO

Pagine: 76
Data pubblicazione: 2006
Prezzo: € 20,50

La Bibliotheca Culinaria dedica una serie di volumi, elegantemente rilegati e corredati da splendide fotografie, ai più importanti e virtuosi chef d’Italia ai quali ha chiesto di creare delle piccole monografie su un alimento e attraverso le quali gli chef propongono le ricette liberi dai vincoli imposti dal menù o dalle mode del momento.

Il risultato è una galleria di autoritratti e un approfondimento, di spessore, sugli alimenti. “A Tutto Tonno” è il divertentissimo titolo del libro scritto da Carmelo Chiaramonte, chef al Ristorante Il Cuciniere del Katane Palace Hotel a Catania che esplora il ruolo fondamentale del tonno in cucina e nella cultura alimentare siciliana. Dimostra che il tonno viene considerato il maiale del mare, che non si butta via nessuna delle sue parti e, con rara destrezza e ironia, fonde il sapere antico con la moderna arte e compie una descrizione accurata del pianeta tonno con le sue immumerevoli parti nobili e meno nobili che una volta erano conosciute e apprezzate dal nostro popolo tutto.

Se fino a pochi anni fa parlare, scrivere e documentare la gastronomia di un luogo era argomento di scarso valore culturale, con “A Tutto Tonno” si ha una sintesi storica del mondo del tonno di grande utilità per il lettore che scoprirà tra le righe anche la valenza antropologica dell’argomento.

La cattura del tonno in Sicilia risale al neolitico e lo documentano le scoperte archeologiche nella Grotta di Levanzo. Fu il primo pesce ad essere conservato sotto sale in vasi di terracotta a causa delle abbondanti pescate che non rendevano possibile consumarlo in pochi giorni. Per secoli la pesca è stata compiuta con il rito della mattanza che sopravvive, oggi, in poche tonnare (una a Favignana e due in Sardegna) e che rappresentava un vero e proprio rito, al limite del religioso, quando alla pesca si accompagnavano canti di lavoro, imprecazioni, o parole contro la malasorte.

Tutte le civiltà che si sono avvicendate in Sicilia hanno tenuto in seria considerazione la fonte di ricchezza che derivava dalla pesca del tonno, dai fenici ai greci, dagli arabi ai normanni, dagli angioini ai borboni. L’esercizio delle tonnare risultava così complesso da richiedere numerosissimi lavoratori tant’è che intorno al 1520 si prevedeva addirittura, nel periodo di pesca del tonno, l’immunità dalla galera per debiti civili a favore di coloro che sceglievano di lavorarvi.

E’ grazie a queste tradizioni che Carmelo Chiaramonte parla, quando si tratta del tonno, di una spiritualità di cottura. Carmelo racconta la tradizione italiana che vuole che i tonni si avvicinino alle coste il 23 aprile, il giorno di San Giorgio, per poi allontanarsene il 13 giugno, giorno di Sant’Antonio. Ci dice che dopo la data di giugno i tonni hanno carni meno pregiate e meno saporite. Il tonno più pregiato è detto “di corsa”, ha le carni grasse e saporite.

Un tempo alcune parti del tonno venivano utilizzate anche per usi non alimentari. Dalla spremitura dello scheletro del pesce si otteneva un olio che, spalmato sui muri delle abitazioni in conci di arenaria li proteggeva rendendo impermeabile la superficie all’attacco della salsedine, mentre la coda del tonno era adatta a ricevare delle scope e con le spine si costruivano delle spazzole per la pulizia delle carene delle barche.

La filosofia di cucina che unisce le 28 ricette proposte da Chiaramonte è la stagionalità degli alimenti strettamente legata al periodo di pesca dei tonni. Molte delle ricette nascono da codici di cottura popolari e vengono spessissimo usati aceto, origano e capperi che si addicono a stemperare il sapore deciso del tonno. Altre ricette, quelle più curiose e stuzzicanti, nascono da un intento di rivisitazione delle cotture tradizionali come, ad esempio, la ricetta del tarantello con la peperonata alle fragole per alleggerire un piatto tradizionale accompagnato, di solito, da una peperonata fritta che viene sostituita con una guarnizione leggera, delicata ed estremamente raffinata.

Carmelo Chiaramonte si diverte a giocare con le parole e molti piatti da lui realizzati possiedono una vena burlesca che, se possibile, amplifica il gusto e la qualità della preparazione: la Tonnellata, una ricetta a base di tonno e marmellata; il Tonno Vitellato, una parodia del molto più celebre Vitel Tonnè dove il Tonno è, naturalmente protagonista mentre il vitello diventa il complice di un sodalizio perfetto sfidando le convenzioni culinarie. Così come quando con il piatto Tonno di Terra e Mare accompagna il trancio di pesce a un salume nobile, denso, grasso e piccante come la nduja calabra rendendo omaggio alla cucina portoghese che spesso sposa il maiale al tonno.

Il gusto forte e deciso del tonno viene stemperato e addolcito, tanto da diventare quasi un dessert, da ciliegie marinate in cinque diversi tipi di aceto balsamico, oppure accompagnato da gelato e frutti misti, da gelsi bianchi e stecche di cannella (Tonno con gelato di frutti misti; Filetto di Sgombro con verdure maritate e gelsi bianchi; Coda di Tambarello steccata alla cannella e basilico; Scaloppe di cuore dorate al sesamo).

Non manca, nel libro, un capitolo dedicato ai parenti del tonno: lo sgombro, di cui risultano particolarmente gustose la sacca spermatica e le uova, il Tambarello, l’Alalunga e l’Allitterato o Tonno Tonnina le cui carni hanno un forte sapore aromatico e che viene chiamato Allitterato per via delle striature sulla superficie dall’aspetto di geroglifici.

Tra le ricette più curiose dedicate ai parenti del tonno: il trancetto di coda d’Alalunga lesso e ficodindia. Il pesce viene servito appena lesso e accompagnato da una insolita insalata di pale di fichidindia, un piatto che in Messico rappresenta l’equivalente della nostra insalata di pomodori e basilico.

La Cucina Siciliana di Mare

Titolo: La cucina siciliana di mare
Autore: Allotta Alba
Editore: Newton & Compton
Data di Pubblicazione: 2006
Collana: Tradizioni italiane
ISBN: 8854106690
Pagine: 272
Reparto: Cucina ed economia domestica
Prezzo € 8.90

Il paesaggio costiero siciliano appare come un arazzo di colori intessuto di trame fitte di scogliere, sabbia e acqua. E sullo sfondo di queste suggestioni, i sapori della cucina marinara, forti, decisi e concentrati, evocano civiltà e tradizioni antiche.
Autentico scrigno di ricchezze, il mare siciliano offre infiniti spunti gastronomici: zuppe e guazzetti, fritture e grigliate, timballi e stufati sono capisaldi di un’autentica cultura gastronomica che privilegia soprattutto il piatto unico.
Pietanze a base di tonno a occidente e di pesce spada a oriente, danno origine a una scia di sapori che, da ogni capoluogo, dilaga in tutta l’isola.
La pasta con le sarde, il cuscus, la ghiotta, lo stoccafisso alla messinese sono solo alcuni esempi di un grande patrimonio di sapori in perfetta simbiosi di semplicità e gusto. Autarchica e invece la gastronomia delle isole minori, dove i prodotti della pesca sono sapientemente combinati con quelli dell’orto.
E nei piatti c’è ancora la memoria di quella necessità di sopravvivenza che eleva ad arte l’esigenza di conservare a lungo ingredienti come i pesci, gli ortaggi e il pomodoro, per affrontare l’isolamento invernale.

Vivo é…I mercati del pesce in Sicilia

Pagine: 268
Casa Editrice: Carlo Cambi Editore
Prezzo: € 60.00
Autore: Andrea Zanfi

Tra “riattieri” e “sgusciatori di gambero” si districa il racconto di “Vivo é…i mercati del pesce in Sicilia” che è stato presentato questa mattina a Palazzo Steri da Andrea Zanfi, autore toscano di una delle collane più prestigiose del settore vitivinicolo, che ha deciso di raccontare al lettore curioso le atmosfere uniche e irripetibili dei mercati ittici siciliani.
Una città nelle città. Un luogo che è punto di incontro e di riferimento, colorato da mille tonalità ed in cui l’odore è sempre pungente, a causa del sangue che impregna le “balate”, ed in cui le parole si accavallano ad altre parole e vengono sovrastate da “abbannniate” ed antiche litanie cadenzate.
Un viaggio che, questa volta, ha condotto l’autore tra la gente di Sicilia, nei mercati che lui stesso definisce “aula didattica a cielo aperto”, dove è più facile comprendere quella sicilianità che rimane estremamente difficile da, interpretare per chi arriva da fuori.
I mercati rionali, quelli unici e mai uguali, dove esistono atmosfere magiche che affascinano e appassionano nella ricerca di sfumature, nelle cromie dei colori e nel vocìo della gente.
“Il libro vuole anzitutto essere un grido di allarme – ha detto Andrea Zanfi – affinché questo patrimonio culturale venga tutelato e salvaguardato”.
Ed ecco che attraverso le splendide fotografie di Giò Martorana, sembra proprio che l’autore abbia voluto prendere per mano chi ha occhi per vedere, conducendo il lettore alla scoperta dei “riatteri” che aprono i loro banchi.
Immagini suggestive che fermano momenti di vita di “attori e comparse che compongono quel cast cinematografico che si muove lentamente andando a prendere posizione secondo una scenografia consolidata e sperimentata”, gesti rituali di una biblica Babele che danno l’input ad un susseguirsi di immagini, sempre divertenti e sempre più somiglianti ad un film felliniano che sa raccontare, come nessun’altro, quegli spaccati di vita unici che sono proprio lì, pronti solo per essere interpretati. E’ così che Andrea zanfi passa in rassegna i mercati di Ballarò, la Vucciria, il Capo, il Borgo Vecchio di Palermo, la A ‘piscaria di Catania, la Loggia di Trapani, Porta Garibaldi di Marsala, ed altri piccoli e grandi mercati nei borghi di tutta la Sicilia, ognuno dei quali è una riproduzione perfetta dell’anima dell’isola.
Un libro originale ed unico che con intelligenza si arricchisce dei testi di esperti, biologo naturalista che narra la storia della pesca e fa rivivere al lettore momenti epici di quest’arte, che è riuscito a rimanere immutata fino a pochi decenni fa.
Del mare si è occupato invece Gaetano Basile, giornalista dalla penna delicata e divertente, raccontandolo attraverso leggende e frammenti di una mitologia che, prendendo spunto dai poemi ellenici, si riconduce alla memoria orale del popolo siciliano.
Nella pubblicazione ci sono altri testi che intervallano le oltre 150 immagini, come quelli di Cinzia Taibbi, tratti da un’intervista a Raimondo Sarà, considerato il massimo esperto mondiale sulla pesca del tonno nel Mediterraneo, su “tonni e tonnare”, e quelli di Eliodoro Catalano, ricercatore presso l’istituto Zoologico dell’Università di palermo oggi in pensione, che racconta di una Sicilia che è appartenuta ai pescatori di alghe, del primo mercato ittico, del “truccatore” e dello sgusciatore di gamberi.

In edicola dal 16 marzo il nuovo n° di Terrà.

Terrà, il magazine dell’assessorato Agricoltura e Foreste della Regione siciliana, sarà in edicola il 16 e il 23 marzo in allegato a Chi, il settimanale edito da Mondadori.
Per il primo numero del suo secondo anno, Terrà ha puntato i riflettori sull’agricoltura biologica, sulla scelta, cioè, di chi coltiva la terra senza l’ausilio di prodotti chimici e nel rispetto dei cicli naturali. Nell’affrontare il nodo centrale della tematica, la rivista prende in esame il ripensamento dell’intero processo di produzione in funzione dell’abbattimento dei costi. Al momento, infatti, la rinuncia a sistemi di tipo “industriale” comporta un rincaro intorno al 30% e impedisce la diffusione di massa dei prodotti bio-logici.
Viene quindi prospettata la necessità di mettere a punto una filiera specifica del biologico che parta dal seme e arrivi alla commercializzazione, passando per l’eventuale trasformazione.
E ancora, sullo stesso argomento, vengono analizzate le caratteristiche e il peso delle produzioni isolane, soffermandosi sui diversi comparti (frutta, cereali, carni, formaggi, vino, olio) e confrontandoli con i dati italiani ed esteri, oltre che con quelli siciliani degli anni passati.
Nel settore Territorio, Terrà propone un viaggio tra i boschi e le sorgenti della riserva “Monti di Palazzo Adriano e Valle del Sosio”: si tratta di quasi seimila ettari, popolati da numerose specie animali e ricchi di testimonianze geologiche di grande interesse.
È l’innovazione tecnologica, infine, ad aprire la sezione della rivista dedicata a Ricerca e Consorzi: il futuro dei macchinari agricoli ha la forma di microrobot simili a insetti telecomandati che planano sulle colture monitorandole ed eseguendo varie operazioni. Un esempio? Possono emettere feromoni in grado di attrarre gli insetti nocivi e allontanarli dalle piante.

FONTE: Assessorato Agricoltura e Foreste

SICILIA, L’ISOLA DEL VINO

Segnalo ai tanti appassionati l’arrivo in libreria per i tipi della casa editrice Kalos del volume Sicilia L’Isola del vino, di Antonino Buttitta e Girolamo Cusimano e due brevi saggi di Giuseppe Aiello e del messinese Sergio Bonanzinga.
Il volume corredato da tante belle fotografie fa la storia del vino in Sicilia dall’antichità ai giorni nostri. Molto interessante il contributo di Sergio Bonanzinga sui canti e le musiche della vendemmia in Sicilia. Brindo all’uscita di questa bella opera con uno dei pochi spumanti prodotti in Sicilia, a mio avviso il migliore, l’Almerita Brut di Tasca d’Almerita, un blande blancs a base di uve chardonnay prodotte nel bellissimo vigneto appositamente realizzato a Regaleali. Vanto dell’intera azienda, l’Almerita Brut è prodotto utilizzando il metodo classico, quello dello champagne per intenderci, trascorre un anno e mezzo sui lieviti in bottiglia per la presa di spuma. Profuma di mele e pesche, ha il perlage finissimo, e un gusto morbido e fruttato nonostante la grande struttura. Personalmente amo berlo a tutto pasto, su piatti di pesce quali la zuppa di vongole, l’insalata di astice, la zuppa di pesce e la spigola al sale, ma va benissimo per tutte le occasioni.

MASSIMO LANZA

Centonove 27 Maggio 2005

Vini e gente di Sicilia

Nino D’Antonio
Vini e gente di Sicilia
Pag. 100. Euro10,00

Il terzo volume della collana I Grappoli, edita da Ci.Vin srl, società di servizi dell’Associazione nazionale Città del Vino, propone un viaggio nel pianeta Sicilia, un percorso senza itinerario, ai limiti dell’affabulazione, reso e ancor più vivo dal linguaggio dell’autore.
Un modo per conoscere la Sicilia del vino, una parte di essa, certo, nelle sue atmosfere, nei suoi miti, nelle sue storia di vita vissute tra vigna e cantina. In questo andamento un po’ anarchico, l’autore ripercorre la storia dell’enologia siciliana, attraversando le strade del vino e i raccontando dei personaggi che le abitano. Nino D’Antonio, napoletano, già docente di Letteratura italiana, giornalista e scrittore, ha il carattere dell’acuto osservatore e al tempo stesso del narratore che aggiunge a ciò che vede quello che la sua immaginazione interpreta, con passione e grande capacità di ricreare, tra una pagina e l’altra, le atmosfere dei suoi incontri. Oltre tutto, è un grande appassionato di vino. Della stessa collana, Nino D’Antonio ha pubblicato il secondo volume dal titolo “Don Calò. Venti racconti intorno al vino”, raccolta di brevi racconti usciti nel corso degli ultimi due anni sulla rivista Terre del Vino. Il libro viene presentato domenica 16, ore 11, a Villa Favorita.

FONTE: Vinoro

CUCINA TRAPANESE E DELLE ISOLE

Giacomo Pilati – Alba Allotta
Franco Muzzio Editore – Cucine regionali
Pagine 270 – euro 15

Un godibile volumetto che propone nella prima parte un excursus della cucina trapanese citando tradizioni e prodotti centenari. La seconda parte propone invece le migliori ricette della cucina di questa antica provincia siciliana, alcune note, altre quasi sconosciute, tutte molto invitanti e da provare. Completa il volume un simpatico dizionario siculo-italiano con i termini più utilizzati in cucina.

Giacomo Tachis, Sicilia d’autore

Premiato a Palermo il più grande enologo italiano per la grande dedizione alla terra di Sicilia e ai suoi vini.

La Sicilia ha festeggiato in grande stile Giacomo tachis, approfittando della presentazione di un libro a lui dedicato, scritto dal giornalista Bruno Donati e dal titolo “Giacomo Tachis enologo corsaro. Dieci anni di rivoluzione siciliana”. (Ed. Terra Ferma, 114 pagine, 25 euro).
Titolo ben azzeccato che ricorda l’avventura in Sicilia, tutt’ora in corso, del più famoso enologo italiano. Il libro è stato presentato a Palermo, presso il magnifico Palazzo dei Normanni, oggi sede dell’Assemblea Regionale Siciliana.
In prima fila i rappresentanti delle aziende e dei gruppi vinicoli, non solo isolani, in cui il grande enologo, nato in Piemonte, a lungo adottato professionalmente dalla Toscana ma con il cuore sempre in terra di Sicilia, ha saputo lasciare tracce indelebili. Presenti, naturalmante, i “padroni di casa”, ovvero Salvo Fleres, vice presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, e Innocenzo Leontini, che guida il dicastero regionale all’agricoltura. E’ stato proprio l’assessore Leontini a premiare con una targa d’oro Giacomo Tachis, un riconoscimento dovuto alla dedizione dell’illustre enologo verso i vini di Sicilia, del cui rilancio è stato protagonista, da un punto di vista tecnico ma anche passionale. “In Sicilia, tachis ci ha messo non solo la sua esperienza ma anche il suo cuore. Un poeta della vigna”. A definirlo così è Roberto Merra, un personaggio dell’enologia siciliana, per molti anni presidente della casa vinicola Duca di Salaparuta, oltre che a lungo responsabile di enti e associazioni aventi per oggetto la promozione del vino di qualità. “Ho conosciuto Tachis, che è mio coetaneo, siamo nati nel 1933, grazie alla mia amicizia con Piero Antinori”, ricorda Merra ampliando indirettamente il ritratto dell’enologo piemontese.
“Tachis è stato per 30 anni direttore delle cantine degli Antinori, per i quali ha inventato il Tignanello, un vino famoso nel mondo come il Sassicaia, altra sua creatura per le cantine della famiglia Incisa della Rocchetta”. Andato in pensione, Tachis, appassionato bibliofilo e studioso, no è riuscito, come avrebbe magari voluto, a dedicarsi alla sua vasta biblioteca di libri antichi e rari a tema enologico. Perchè preso, avvolto, dal fascino della Sicilia, dal suo clima, dai vigneti buoni che però andavano scomparendo, dalla passionalità dei suoi produttori. Così si è dedicato, appunto per “dieci anni”, come recita il titolo del libro di Donati, alla viticoltura siciliana, ottenendo grandi risultati, portandola su un podio che sembrava irraggiungibile.
Oggi Tachis rimane nel Consiglio d’amministrazione delle case Vinicole di Sicilia, che raggruppa la Duca di Salaparuta e Florio, due nomi storici. Dieci anni, scrive Donati nella sua bella opera, ma i contatti del Maestro con la realtà isolana risalgono agli anni 80, grazie alla sua prima collaborazione con l’Istituto regionale della vite e del vino.
Merra continua nelle sue definizioni di Giacomo Tachis:”Non solo un grande tecnico, come lo sono alcuni altri enologi italiani, ma anche un uomo di grande cultura. Un corsaro, un archeologo, un poeta. Un vero Principe dei vini”. E per finire, in segno di incondizionata ammirazione, gli dedica questi versi sottratti al poeta Alceo: “O amato uomo, prendi le tazze variopinte perchè il figlio di Zeus e di Semele diede agli uomini il vino per dimenticare i dolori.

Il mio vino Settembre 2005