Gastronomia e cultura. Così scrive Ignazio Butitta: “Uno dei caratteri della vita intellettuale e in generale della cultura siciliana su cui non si è abbastanza riflettuto è la eterogeneità” L’eterogeneità attraversa la società siciliana, ma anche la sua natura fisica, rendendola una terra dai forti contrasti: montagne innevate e campagne arse dal sole, colline ricamate dai vigneti e distese di grano; semplicità contadina e ridondanza barocca della nobiltà, ricchi e poveri, principi e plebe. La terra dei contrasti plasma ogni tratto della cultura siciliana, restituendo in un’apparente contemporaneità le stratificazioni dei popoli e del tempo che l’hanno generata.
La gastronomia ripercorre il dualismo siciliano, specchio fedele della vita materiale e spirituale di questo popolo: cucina nobile e popolare, frutti della terra e del mare, povertà degli ingredienti sulla mensa del bracciante e ricchezza che deve poter stupire l’ospite del potente.
La varietà delle preparazioni è figlia della diversità dei suoi prodotti: degli orti, degli allevamenti, del ricco mare. Anche la cucina più povera non è mai sciatta, e si arricchisce di aromi, lunghe e faticose preparazioni, trasformando pochi poveri ingredienti in opere gastronomiche. In Sicilia la tradizione prevale sempre, tanto che visitando le sue città e i suoi villaggi scopriamo sapori antichi e diversi, come diversi sono stati i suoi abitanti, coloni, dominatori, come se il tempo e la modernità non siano scorsi sulla sua superficie, come la pioggia sul vetro di una finestra.
Per pochi altri posti al mondo come per la Sicilia parlare di cucina è iniziare un viaggio dentro il tempo, incontrando piatti che dischiudono prospettive di epoche remote e suggeriscono immagini di luoghi e di paesaggi del passato.
Una cultura gastronomica iscritta nella tradizione mediterranea, in cui la varietà di piatti è ricca di prodotti, spezie e profumi che testimoniano quanto l’isola si sia, da secoli, trovata al centro di mire e attenzioni di popoli di ogni dove. Le tante dominazioni hanno lasciato monumenti e ruderi a ricordo del loro passato splendore, hanno profondamente segnato il paesaggio con le colture introdotte e seminato tracce in abitudini e modi di vita facilmente riscontrabili ancora ai giorni nostri soprattutto in cucina. Storia e antropologia sono le chiavi di lettura per addentrarsi nel labirinto dell’enogastronomia siciliana.
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I Greci provenienti dalle Cicladi nel 735 a.C. sbarcarono sul litorale ionico, in prossimità dell’odierna Naxos, ed i Corinzi di Archia nel 734 a.C. furono a Siracusa. La nascita della gastronomia siciliana risale a circa 2500 anni fa, quando nel mondo classico i cuochi della Sicilia e della Magna Grecia erano tenuti in grande considerazione per la genialità delle loro preparazioni culinarie. Le prime testimonianze significative risalgono al IV sec. con Platone che, chiamato dal tiranno Dionigi il Vecchio, criticava gli eccessi dei Siracusani a tavola, pur elogiandone al contempo la ricca pasticceria, e con Licurgo, che indusse le istituzioni spartane ad emanare un decreto per cacciare il cuoco Mirteo di Sicilia, accusato di “… illanguidire i severi costumi della città con le sue prelibatezze …”. Già il poeta Archestrato di Gela, nel IV sec, si era occupato di cucina nel poema in esametri “Hedypatheia”, Gastrologia. Questo, andato distrutto durante l’incendio della biblioteca di Alessandria d’Egitto, fu reso celebre da Ateneo, sofista di Naucrati (Egitto) vissuto nel III sec., autore di un’opera in quindici libri, intitolata “Deipnosofisti”, ovvero “Banchetto dei sofisti”. Tuttavia, già prima di Ateneo, anche lo storico romano Ennio aveva studiato l’opera di Archestrato, scrivendo un altro poema in esametri, “Edyphagetica”, La buona cucina. Tra le altre testimonianze sono da annoverare l’opera di Miteco di Siracusa, precursore della letteratura gastronomica con “Il cuoco siciliano”, sempre del IV sec., e di Labduco, che aprì per primo una scuola per cuochi. Il farro, prima dei Greci, veniva utilizzato in Sicilia, per fare il pane, poi, venne utilizzato in tutt’altro modo. Con la farina di farro, oltre a un ottimo pane, si ottennero delle tagliatelle molto saporite e, niente poco di meno che, la pasta frolla. Con il farro macinato grosso essi si fecero delle ottime zuppe ed, infine, con il seme intero, unito a fave, lenticchie, ceci, ed interiora, la famosa Fabata Puls. Della Magna Grecia restano intatti i sapori delle olive, della ricotta salata, del miele dei fiori, del pesce, dell’omerico agnello alla brace e soprattutto del vino.
Con il declino della potenza di Bisanzio, sempre più occupata a difendere i confini orientali dai Turchi e dai Magiari, iniziò la colonizzazione musulmana del territorio siciliano. Il primato di Siracusa venne soppiantato da Palermo, che diventò il centro della vita politica e commerciale. La Sicilia vide nascere monumenti e opere pubbliche, e anche il commercio marittimo conobbe un forte sviluppo. Alla già ricca cucina siciliana si aggiunsero i prodotti importati dalla Persia, il riso, le spezie, lo zucchero di canna e gli agrumi, ma, anche, il riso che avrà un posto importante nella cucina siciliana. La pasticceria si evolve e nasce la celebre cassata e la “cubbaita”, un dolcissimo torrone di miele, semi di sesamo e mandorle. In una splendida collaborazione gastronomica tra arabi e siciliani, nasce una sorta di cucina arabo-sicula la cui influenza si estende a tutto il bacino occidentale del Mediterraneo. Tra i vari piatti, ancor oggi in uso, non è possibile non citare il “cuscusu” elaborazione del famoso cuscus arabo o il sorbetto preparato quasi come oggi e, quindi, molto più raffinato rispetto all’uso di bevande ghiacciate già in uso in tutta Europa.
Nel corso del periodo di dominazione romana Marziale, Petronio e lo stesso Cicerone parlarono delle prelibatezze locali. Diventata la prima provincia dell’Impero nel III secolo d.C., la Sicilia fu definita il “granaio di Roma”; furono edificate le prime fastose ville, prima fra tutte la Villa del Casale di Piazza Armerina, con i suoi eccezionali mosaici, sorta tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C. Ma è in questo periodo che l’isola iniziò a subire i primi soprusi, essendo considerata dai Romani una colonia da spogliare, e ad avviarsi verso quel periodo di decadenza al quale solo gli Arabi porranno rimedio. Al periodo romano risalgono piatti come le seppie ripiene, le cipolle al forno, il «maccu», purea di fave cotte in acqua insaporita con erbe aromatiche, che si condisce con olio crudo e si mangia con pane o pasta. È un piatto semplice, che oggi si trova quasi soltanto nell’interno dell’isola: per secoli è stato il cibo più frequente del contadino e dello zolfataro, che se lo portavano, dentro la “quartara” o anfora di terracotta, nei campi e in miniera.
Con la disgregazione dell’Impero iniziarono le invasioni barbariche, come quella dei Vandali che, dopo aver occupato l’isola, la abbandonarono nel 455, a seguito di una lunga serie di devastazioni e razzie. Alcuni decenni dopo i Goti, alla fine del V secolo e con l’avallo dell’imperatore Giustiniano, si insediarono in Sicilia, governandola fino a quando furono costretti a cederla nel 535 ai Bizantini, che rimasero fino all’827. Con la loro presenza l’isola riscoprì gli antichi piaceri della cucina greco-romana, incorporata ormai alle tradizioni locali: si trattava di una cucina sofisticata e ricca di sapori, a base di soffritti e piatti dolcificati con il miele.
Nel trentennio che va dal 1060 al 1091 i Normanni, capeggiati da Roberto il Guiscardo e dal fratello Ruggero d’ Altavilla, già possessori di terreni in Puglia, rivolsero la loro attenzione alla Sicilia, assoggettandola dopo una guerra lunga e cruenta e gettando le basi del nuovo Stato siciliano. I segreti della gastronomia furono gelosamente custoditi in castelli e conventi dove, malgrado il mantenimento di molti aspetti introdotti dalla dominazione araba, i gusti vennero rielaborati in base alle esigenze dei nuovi signori provenienti dalla Francia. Morto nel 1112 Tancredi, ultimo re normanno, subentrò con Enrico VI la dominazione della dinastia Sveva degli Hohenstaufen; il figlio Federico II, imperatore, ricevette l’appellativo di “stupor mundi” e continuò a rendere Palermo la città culturalmente più evoluta del mondo occidentale. Appassionato di caccia, compose un trattato di falconeria importante ancora oggi, “De arte venandi cum avibus”. Di questo sovrano è tramandata la fama di epicureo, tanto che Dante lo collocò nel cerchio dei golosi. Popolazione scandinava di indole marinara e guerriera, che, oltre alla costruzione di enormi cattedrali, porta spiedi rotanti, aringhe affumicate, merluzzi secchi (Piscistaccu e Baccalà) . Si sviluppa nelle cucine siciliane una grande conoscenza delle tecniche per la miglior cottura della selvaggina che completava così il repertorio, già vastissimo, delle preparazioni gastronomiche siciliane.
Si giunge così al lungo periodo della dominazione spagnola in Sicilia; l’epoca dei Viceré. Al seguito dei Conquistadores spagnoli di ritorno dall’America, si diffuse in Europa il pomodoro che, nel Sud d’Italia e quindi anche in Sicilia, ebbe enorme fortuna trovando terreno ideale. Pochi anni dopo fu la volta di un’altra protagonista della cucina meridionale, la melanzana, anch’essa di origine sudamericana. Si crearono con questi ortaggi piatti come la «caponata» di verdure, tuttora uno dei più caratteristici e diffusi dell’isola. In questo stesso periodo nacque il Pan di Spagna, base di molti dolci, e si diffuse il cioccolato a seguito dell’importazione dei semi di cacao.
Il capitolo più celebre della cucina siciliana è quello baronale. Nelle sontuose dimore dei gattopardi dei secoli XVIII e XIX la tavola raggiunse opulenza e fasto straordinari. Il popolo non aveva di che sfamarsi, ma i baroni e gli alti prelati si contendevano i più abili “monzù”, cioè i maestri della cucina (dal francese “monsieur”) che prendevano al loro servizio per avere sempre una tavola ricca di invenzioni spettacolari. È rimasta celebre la descrizione che fece l’inglese Patrick Brydone di un pranzo offerto nel giugno del 1770 dalla nobiltà di Agrigento al proprio vescovo. «A tavola eravamo esattamente in trenta, ma sulla mia parola non credo che i piatti siano stati meno di un centinaio. Erano tutti guarniti con le salse più succulente e delicate… Non mancava nulla di ciò che può stimolare e stuzzicare il palato…». Tra le portate, quelle che più colpirono il viaggiatore inglese furono le murene e il fegato di polli fatto ingrossare a dismisura. A un certo punto del banchetto ci fu un interessante scambio eno-gastronomico perché gli invitati britannici furono pregati di preparare un ponce, bevanda di cui in Sicilia si era sentito parlare ma che non si era ancora assaggiata. L’accoglienza fu entusiasta, ma l’incredibile pranzo aveva in serbo altre sorprese. Al momento dei dessert, continua il cronista anglosassone, «uno dei camerieri offrì al capitano il simulacro di una bella pesca e questi, impreparato a qualsiasi inganno, non dubitò affatto che si trattasse di un frutto vero. Tagliatala in due, se ne cacciò subito in bocca una grossa metà… ma tosto il freddo violento ebbe la meglio ed egli cominciò a rotolare la pesca da una parte all’altra della bocca, con gli occhi che gli lacrimavano; finché, non potendone più, la sputò nel piatto imprecando: “Una palla di neve dipinta, perdio!”». La gustosa descrizione di Brydone offre la testimonianza storica di un’arte – quella dolciaria, in particolare quella dei gelati – che non è andata perduta.
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Non è possibile parlare di cucina siciliana come di un’unica entità: le diversità originate dalle differenti influenze culturali si sono incrociate con quelle determinate dalla diversità tra cucina della costa e dell’interno; due mondi ancora lontani, ma tra i quali, a causa delle difficoltà di spostamento, esisteva un tempo un solco profondo. Passando da un centro abitato dei Nebrodi a un borgo marinaro del Siracusano si incontreranno piatti diversissimi, come diverse sono le preparazioni in paesi distanti tra loro poche decine di chilometri.
Come in tutte le cucine povere è ad esempio ricorrente l’abitudine del piatto unico; le paste di vario tipo e cucinate in modi diversi, arricchite dai prodotti del posto finiscono col diventare l’intero pasto. È il caso della pasta con le sarde, piatto che da Palermo si è diffuso ovunque sull’isola; delle paste con ortaggi e legumi dell’interno; delle varie paste al forno quali la pasta ‘ncaciata messinese, per giungere alle varianti ricche di echi culturali come la catanese pasta alla Norma (con pomodoro, melanzane e ricotta salata).
Prima ancora della pasta è però il pane ad assolvere questa funzione nutritiva. I tanti tipi di pane di cui la Sicilia è ricca si sono sempre accompagnati a quanto la zona offriva, olio, origano e pomodoro per il più diffuso pane cunsato (condito), da consumarsi caldo, appena sfornato al più insolito pane cà meusa crostino con la milza venduto sulle bancarelle per le strade di Palermo.
La familiarità con i prodotti naturali ed una semplicità di fondo è ciò che ancor oggi più caratterizza la cucina della parte orientale dell’isola, culla della Magna Grecia. È facile riscontrare analogie con la cucina dell’interno segnata da abitudini contadine e caratterizzata dall’utilizzo di verdure ed ortaggi. La melanzana ne è un esempio significativo, da essa traggono origine piatti appetitosi fino a giungere alla sua glorificazione nella parmigiana.
I prodotti della pastorizia hanno un posto di rilievo, mentre il consumo della carne è un’eccezione spesso riservata alla festa. La preparazione più comune è alla brace, vengono utilizzati soprattutto il maiale, ma ancor più l’appetitoso castrato. Nella parte occidentale segnata dall’influsso arabo e dalle tradizioni di corte, la cucina si fa più ricca, ricercata e dai contrasti insoliti. In analogia al paesaggio, all’austera semplicità dei templi greci si sostituiscono le raffinatezze da “mille e una notte” della Palermo araba e la sovrabbondanza dell’architettura degli edifici barocchi. La caponata di melanzane è un esempio di come diversamente vengano elaborate le verdure, il falsomagro (grosso rotolo di carne con ripieno di prosciutto, formaggio e uova) o gli involtini alla palermitana (ripieni di pangrattato, uva passa, pinoli, formaggio e aromatizzati con alloro e cipolla), lo sono per le carni, le sarde a beccafico (con pangrattato, limone, pinoli) per i pesci. Piatti la cui complessità aveva anzitutto la funzione di ostentare ricchezza. Non manca tuttavia anche nelle grandi città una cucina d’ispirazione popolare, cucine di strada come friggitorie, forni e bancarelle che offrono ogni sorta di piatti a tutte le ore (sfinciuni e panelle per esempio).
Il pesce, come ovvio, è proposto con ricchezza di preparazioni e di varietà; tra di esse anche per il posto che da sempre occupa nella tradizione popolare merita rilievo il tonno, ma ovunque vengono proposte sarde e alici, mentre lo spada è più tradizione del messinese. Particolari le preparazioni alla ghiotta (cipolle, olive, capperi e pomodoro) e nel trapanese il cuscusu, versione isolana del cuscus di origine magrebino realizzato appunto con pesce.
Attenzione particolare merita la pasticceria che in Sicilia fa parte delle abitudini quotidiane, il suo profumo è nell’aria come quello delle piante odorose (rosmarino, finocchietto selvatico, origano, nepitella) che si incontrano lungo il viaggio. I dolci, ideati nei conventi – basti pensare alla variopinta frutta martorana, che prende il nome dall’omonimo monastero palermitano – hanno caratterizzato l’isola al di fuori dei suoi confini: cannoli, cassate, pignoccata, biancomangiare o il tradizionale gelo di “melone” (gelatina di anguria) sono i più diffusi, ma ogni provincia è ricca di novità e sorprese. Non si possono poi ricordare i gelati e le granite, prodotti squisiti dell’abilità artigiana, ma prima ancora abitudini, riti che parlano di altre dimensioni del tempo. È considerato un obbligo, nelle giornate estive, offrire all’ospite una granita di caffè, di limone o di mandorle, di gelsomino.
I vini dell’isola, sotto la spinta dei produttori e delle cantine più attenti alle esigenze del mercato, hanno raggiunto alte vette qualitative, migliorando le tecniche di coltivazione e di lavorazione, introducendo nuove varietà, tanto da conquistare anche mercati lontani, dove si sono fatti apprezzare riscattando l’originale immagine che li faceva considerare solo vini da taglio. Ora vincono premi internazionali e sono presenti nei più prestigiosi ristoranti ed enoteche de mondo.